Mimmo Sancineto e le sue “Dieci tavole per Rossano”
Dieci tavole per Rossano. In questo modo, se fossimo ancora nell’epoca del Grand Tour, potremmo chiamare la sezione della mostra di Mimmo Sancineto dedicata all’antica e bella città jonica calabrese.
Artista impegnato per la sua terra e che, anche negli anni in cui nel campo dell’arte era certo più facile operare fuori dalla Calabria, ha preferito restare nella sua regione, tra il Pollino e lo Stretto, tra il mar Tirreno e lo Jonio.
Non è stato certo l’unico. Singolare, però, appare il suo percorso. Teso a non confondere la sua scelta con un isolamento, sia pur volontario. Infatti, non si è racchiuso nei meandri di una pittura facile e suadente e nemmeno in quelli, altrettanto mistificatori, di un espressionismo à la page, spesso semplicemente mediato, più o meno esplicitamente, dai media visivi che oramai giornalmente ne trasmettono alcuni esiti, sublimati e trasformati in immagini eidetiche subito afferrate ma non fermate dal subcosciente, per cui la memoria ne conserva solo il potere evocativo e non la sintesi formale.
È stato, al contrario, un vero straniero nella sua vera terra.
Ha cercato di tenere alto il valore della comunicazione, distinguendolo dall’operato artistico ma non escludendolo, soprattutto ha mantenuto chiaro e inalterato il rapporto dell’arte con il pubblico e non l’ha mercificato, né per i propri fini né per quello degli altri. Dovrebbero essere ancora in mente gli anni in cui “Il Coscile” - la galleria d’arte aperta da Mimmo Sancineto a Castrovillari: la sua città, nella quale senz’altro confluì la sua precedente esperienza dell’associazione “Le Trou” sempre da lui fondata assieme ad amici pittori e scultori anche loro - ha ospitato importanti mostre di artisti di ogni parte d’Italia. Accogliendole in un unico luogo, sebbene temporaneamente e in consecuzione tra esse, ha creato un filo, all’apparenza esile ma invece ben forte e consistente come un ponte - come i veri ponti! -, con le tendenze culturali più vive permettendone il confronto con le realtà calabresi dandovi quindi un decisivo impulso. Ognuno può trarre le sue personali conclusioni su quanto appena detto, anche discordanti, rimane innegabile l’essere accaduto.
Un impegno morale prima ancora che professionale questo di Mimmo Sancineto, connaturato di certo al fatto di sentirsi ed essere in prima persona coinvolto in quelle istanze artistiche. Si è sicuri che se qui ci fosse il tempo e lo spazio editoriale di sfogliare e di discutere ogni catalogo edito in occasione delle mostre allestite presso “Il Coscile”, si potrebbe senz’altro evidenziare tutta una serie di comparazioni e di intime e silenziose connessioni e collisioni, interagenti tra esse a più livelli, utili a cogliere e decifrare l’essenza più profonda dell’arte di Mimmo Sancineto: le sue preferenze, le sue propulsioni, le sue scelte e di conseguenza l’universo del suo pensiero. In poche parole: la sua personale concezione del mondo. Un paradigma oggi forse un po’ desueto, certamente abusato ma mai come in questo caso azzeccato.
Effettivamente, ribaltando modi e tempi, sistemando tutto nel rispetto delle giuste coordinate, capiterà, come succede quando si studia un artista del passato chiamato al ruolo di fiduciario per acquisti e collezioni nelle scelte artistiche di qualcun altro, di mettere a nudo i bandoli più reconditi del proprio pensiero artistico.
Compaiono, quindi, d’impatto, molteplici riferimenti alla cultura artistica italiana degli anni Sessanta e Settanta. Specificatamente, come è possibile evincere dall’esame della sua pittura, a quella impegnata sul fronte del recupero dell’esperienza figurativa messa allora in crisi dalle Avanguardie e dalle imperanti correnti dell’Astrattismo, dell’Essenzialismo e dell’Informale. Ma anche per l’esplicita e netta preferenza verso la materia e il ductus della pennellata. Liberata oramai dalla forma e divenuta essa stessa tale, sull’onda delle ricerche post-espressionistiche della Scuola Romana, apre il varco all’esaltazione del colore e delle superfici che lo trattengono.
Da qui il passo di Mimmo Sancineto verso il suo Bosco in inverno e i suoi Fiori d’acqua è molto breve, anche se appartengono alla produzione più recente e seguono in ordine l’evoluzione di quella precedente. Così come è breve anche se molto meditato il passo verso la Magna Grecia e i suoi segni. Una vera e propria antologia dedicata alla Calabria e alla sua storia, in modo particolare a Sibari e ai suoi muri, intesi non come semplici superfici da osservare ma come un vissuto, tra l’altro pure eloquente di quanto finora si è cercato di evidenziare in merito al rapporto con la sua terra.
Un’esperienza che si potrebbe definire lacerante, quasi come un urlo ripercosso dalla pelle, se solo e concettualmente, anche per la frazione di un attimo, I Segni della Magna Grecia di Mimmo Sancineto vengono virtualmente sovrapposti al passato della regione, qualunque sia, perduto e ritrovato, nel caso appunto recuperato attraverso una lunga e intensa attività di scavo archeologico, ancora in fieri. La dedica a Sibari è molto eloquente, giacché proprio da questa città dai tre nomi: Sybaris, Copia e Thouroi, trae origine l’inurbamento attuale dell’area della sua Piana, fino ai centri urbani delle falde del Pollino a essa prospicienti.
Non si ha certo la pretesa di recuperare e di tracciare qui le linee del percorso artistico di Mimmo Sancineto, altri meglio di me e con più competenza del mondo contemporaneo lo hanno già fatto in sedi e pagine diverse da queste. È stato tuttavia necessario coglierne alcuni fili e sviluppi per meglio sfogliare le Dieci tavole per Rossano che seguono.
Fili differenti e molteplici, per non dire innumerevoli e complessi, tanto sono difficili da raggruppare. Non da districare, però. Ci sono bandoli che si agganciano al suo rapporto pervicace con la Calabria - la sua terra - e con le tensioni culturali contemporanee vive in questa regione. Altri generati dai personali recuperi introspettivi del panorama artistico a lui attuale. Fili, inoltre, liberati da una caratteristica concezione della materia. Data quasi a colpi, a volte sfilacciata e con diverse trasparenze e addensamenti, quasi a suggerire la presenza di vari, seppure impalpabili piani della superficie dipinta, a volte inaspettatamente incisa come se si trattasse di un metallo sbalzato che per riflettere o restituire con maggior risalto la decorazione avesse bisogno di addensamenti d’ombra.
Insomma, sono tutti discorsi in itinere in certo qual modo utili per spiegare lo sviluppo artistico di Mimmo Sancineto e di afferrarne il singolare rapporto con il passato, come ancora proposto nelle tavole in mostra. Anche in questo caso il suo percorso non è unico e nemmeno raro. Molti prima e parallelamente a lui lo hanno seguito, sebbene con scopi ed esiti differenti e pure divergenti. Una strada certamente insidiosa, perché guardata con sospetto sia da chi si rivolge all’arte del passato sia da chi presta attenzione a quella contemporanea, storicizzata o attuale che si voglia. Specialmente se entrambi intendono l’assoluta estraneità e incompatibilità delle fonti. Nell’arte, invece, come finalmente acclarato dall’estetica è tutto un continuo fluire di forme, senza origine e senza fine.
Certo, grazie alle esperienze delle diverse correnti del Razionalismo originatesi dal tardo Settecento sino ai giorni attuali, si è consci che il passato è storia già fatta ma è altrettanto vero, perché quegli stessi movimenti culturali lo hanno evidenziato al pari di un rovescio della medaglia, che la storia esiste solo perché gli uomini la esplorano e la rigenerano, rendendone comprensibili i nessi con la propria realtà.
Tra le varie inclinazioni che gli artisti contemporanei hanno messo in luce del loro rapporto con l’arte del passato, quella di Mimmo Sancineto appare alquanto singolare, come chi lo segue da tempo ha già messo in evidenza cogliendone una sorta di mediterraneità della sua pittura. Nel caso specifico di queste Dieci tavole per Rossano tale contesto culturale e spirituale si fonde con un ulteriore tassello: non l’essenza o la suggestione, come avvenuto nei precedenti e già ricordati dipinti nominati I segni della Magna Grecia, bensì la presenza effettiva delle immagini che rievocano il passato di un luogo. Allora ecco il recupero personale, il d’apressè diventato contrassegno originale di una nuova introspezione essenzialmente visiva, pronta a generare ulteriori e inedite impressioni. Le Dieci tavole per Rossano, quindi, non si contrappongono affatto ai dipinti realizzati per Sibari ma ne sono la più acuta continuazione.
Non solo perché la città calabrese jonica, stando agli studi più aggiornati, di Sybaris anzi di Thouroi dovrebbe rappresentare la continuazione geopolitica del pertinente territorio, sicuramente di quello afferente alla sua chiesa, nel passaggio dall’età classica e imperiale a quella della tarda antichità e poi specificatamente bizantina. Soprattutto, invece, per il forte legame formale stabilito da Mimmo Sancineto con le precedenti tavole dedicate alla città magnogreca, grazie al quale le suggestioni maggiormente coloristiche e grafiche di quelle si risolvono in rappresentazioni più discernibili, quindi definite. Si potrebbe anche dire, anzi è la prima cosa cui si pensa, che queste tavole siano una sorta di omaggio a Rossano e alla sua storia, puntando l’attenzione sopra i suoi più celebri monumenti. Ciò, però, sembra riduttivo perché le dieci tavole non si limitano a celebrare cotanto fasto ma per certi versi lo infrangono da dentro per recuperarne momenti inediti e renderlo oggetto di nuove interpretazioni.
Rossano …la bizantina! Una città che è stata effettivamente tale nonostante le forti tensioni verso Roma, cioè verso l’occidente, le quali, come un filo rosso, ne hanno segnato la storia. Una città rimasta ferma nel suo rito greco-ortodosso fin quasi alla caduta di Costantinopoli, quando forse il suo clero e la sua gente comprese con la fine della città imperiale l’avvenuto tramonto di un’epoca impossibilitata oramai a ritornare o a risorgere, come invece accade al sole ogni mattina da oriente.
Rossano… la normanna! Una città indomita, fiera della suo passato, che resiste ai nuovi dominatori, come aveva ricalcitrato ad alcuni ordini di quelli precedenti, presumendo finanche di trattare la propria resa. Ottiene comunque non pochi privilegi. Una città che sembra voglia ad ogni costo salvare la sua storia.
Della Rossano bizantina e normanna rimangono non pochi segni e molto prestigiosi. Dal celeberrimo Rossanese - come denominato il Codice purpureo tra gli specialisti - all’affresco dell’Achiropita, vera e propria icona che trasmette il tipo mariano dell’Odighitria nel modello sopravvissuto attraverso la tavola romana di Santa Maria Maggiore, forse proprio quello primitivo costantinopolitano come sosteneva Margherita Guarducci. Dal medaglione aureo di San Teodoro oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria all’essenziale struttura del San Marco - forse realmente risalente alla ricostruzione della città dopo l’immane frana avvenuta nel decimo secolo e tramandata dalla Vita di san Nilo -, alla Panaghia e all’abbazia del Patire nella quale i normanni, riorganizzando secondo le norme e le abitudini latine le persistenze monastiche greche, danno vita a uno straordinario complesso in cui le ascendenze siciliane si colgono non solo nella sintesi architettonica ma anche nelle decorazioni delle absidi e nel pavimento musivo dell’interno, un tempo anche affrescato come tramandano antiche descrizioni. Un mosaico a rotae giustapposte, ognuna delle quali circoscrivente un animale, reale o fantastico, tratto dagli antichi bestiari. Gli stessi che avevano ispirato la decorazione del pavimento nella cattedrale da poco ricomparso in grandi e significativi lacerti musivi che ne fanno oltretutto comprendere la diversa e più libera disposizione ornamentale. Sono queste appena richiamate le opere su cui Mimmo Sancineto si sofferma e vuole che anche gli altri si soffermino.
Dedica due tavole al Rossanese. In una ripropone la miniatura in cui San Marco evangelista seduto in una grande sedia con schienale scrive sotto la diretta ispirazione della Sophia, vestita d’azzurro, che sembra quasi dettargli il testo e segnargli la corretta vergatura del rotulo aperto sullo scrittoio e scenograficamente svolto ad arco sopra le gambe. Circonda l’immagine, completa di tutta la struttura architettonica presente nell’originale - attentamente riprodotta -, una spessa superficie screziata, variegata dal bianco al rosa fino alla terra bruciata come un’iridescenza monocromatica, a momenti abbacinante, e sbiadisce il color porpora dei fogli del Codice originale assorbito dalla tinta rosata, data à plat, del nuovo fondo. Certamente non è solo questo che differisce. Il dipinto, benché replichi la miniatura benché non si sostituisce affatto a essa ma ne propone una suggestiva variante al di là di ogni tempo e di ogni spazio. Lo stesso si può dire avvenga per l’altra tavola, dove sono rappresentati, quasi ritagliati e appiccicati sul fondo rosa screziato e striato, come una pietra rosa non levigata, i busti dei profeti che nei fogli miniati del Codice reggono i cartigli e indicano l’avverarsi dei loro vaticinî nelle storie della vita di Cristo e nelle parabole da Lui raccontate illustrate nelle miniature soprastanti. Nella scena reinterpretata da Mimmo Sancineto mancano i cartigli e le miniature narrative, cosicché i profeti, risolti con tinte squillanti di azzurro e di giallo, sembrano galleggiare sulla superficie. E dato poi che sono otto e quelli posti alle estremità sono tangenti il limite del piano visivo sembrano riprodotti su una moviola fermata sul giro della manovella. Oppure su un ciclostile nel momento in cui li sta imprimendo su un foglio variegato di tinte. Non si vorrebbe osare più di tanto ma lampante è il riferimento alle innumerevoli riproduzioni del Rossanese da qualche tempo a questa parte, diventato manifesto turistico, cartellone panigiretico, copia faxsimilare e finanche logo. È quasi un monito avverso al bombardamento di un’immagine giunta al limite del rischio dell’esser fagocitata dalle campagne pubblicitarie e di diventare mero messaggio mediatico, contaminata da ripetutamente già visto e sul punto di perdere tutta la suggestione insita alla visione diretta. La sequenza degli otto profeti, in realtà, appare nel Codice purpureo su quei fogli dove le miniature che li presentano in gruppo di quattro sono affrontate e pertanto la visione è speculare.
Un processo del tutto simile, anche se con diversa risoluzione formale, si coglie nelle tre tavole dedicate ai predetti edifici del San Marco, della Panaghia e dell’Abbazia del Patire. Su grandi sfondi trattati con forti pennellate e spatolate sovrapposte, mettendo tinte su tinte, anche contrastanti ma di sicuro effetto - screziate come superfici di marmo di cui ne trattengono a volte le trasparenze -, è poggiata una sorta di istantanea fotografica. La ricerca di un delicato trompe-l’oeil espressa sia nella diversa resa pittorica, che nell’olio pare finga l’acquarello su carta, sia nel risalto dei bordi, come fanno comprendere le sottili linee scure di contorno a solo due profili per ognuna tavola. Ritorna l’ombra necessaria a dare certa rilevanza al particolare rappresentato. Un espediente certamente noto, cui si è abbastanza avvezzi ma nel caso utilizzato per il solo inganno stilistico, quanto piuttosto per catturare l’attenzione sull’attimo della fruizione.
Bella, tra tutte, è l’inquadratura e la resa formale del San Marco. Schematica e sostanziale, anche nell’accordo dei colori, quasi lineare e geometrica, che ben restituisce la caratteristica di un edificio fondamentalmente bizantino ma in gran parte contaminato dall’essenzialità cubica del Romanico.
Lo stesso si avverte nella restituzione delle tre abside del Patire, sulle quali Mimmo Sancineto si sofferma con un interesse analogamente teso sulla struttura architettonica e sul gioco dei piani più che la decorazione, la quale per la resa degli archi che ornano le tre prominenti absidi segue forme concise. Un gioco di rimandi in cui le immagini della visione diretta volutamente si sovrappongono nella memoria a quelle fotografiche più comuni, quasi da vecchie cartoline illustrate, cui per certi versi sembra soggiacere l’inquadratura. Tutto però è trasformato e reso sotto un’altra luce.
Nell’immagine della Panaghia, invece, si sofferma non sul totale esterno dell’edificio ma sul particolare più caratteristico dell’interno: la bifora con a fianco ciò che rimane dell’affresco raffigurante il Crisostomo. Un’immagine molto delicata, nella quale per un attimo sembra cedere alla tentazione del decorativismo. Si guardino, quindi, l’equilibrato convergere delle linee e il loro rispecchiarsi una nell’altra: i semicerchi in ombra degli intradossi delle bifore e quello della stola attorno al collo del Santo, la piccola colonna che divide le arcate e la grande mancanza dell’affresco proprio sotto il rotulo con l’iscrizione canonica del Crisostomo. Per non dire poi della scelta dei colori, distillati uno a uno per rendere nella memoria la realtà vera, un po’ atmosferica della visione. La ripresa ravvicinata del particolare mentre da un lato restituisce il particolare taglio fotografico dell’immagine, quasi di fotogramma cinematografico, dall’altro si rivolge alla valorizzazione del frammento, cogliendolo e apprezzandolo compiutamente in quanto tale.
All’attenzione verso il frammento sono interessate anche le tre tavole dedicate ai mosaici. Ciò è possibile avvertirlo pure nella figura intera del centauro tratta da qual grande tappeto musivo della chiesa abbaziale del Patire, il quale, in fondo, non è altro che un particolare dell’insieme. Di nuovo ritorna il potere evocativo dei rimandi della memoria rivolto alla scoperta del segno grafico e alla dimestichezza con il particolare. Non è la memoria fatta di un insieme di frammenti di immagini che la facoltà mentale accosta per generare il pensiero? Se questa è la domanda allora si spiega perché anche nelle altre due tavole dedicate ai mosaici offre la parte più frammentaria degli stessi, comunque sintetica del tutto, come avviene per quello della Cattedrale, dove il frammento quasi crea una forma del tutto nuova e totale. Persuasiva in merito è la tavola raffigurante il leone dalla fluente criniera, la cui immagine è addirittura stravolta ma nello stesso tempo vivificata, ridotta a una maschera cubista fatta di tasselli, traducendo in tal senso le tessere irregolari del litostrato.
Questo processo di stravolgimento del dato formale offerto dalle opere d’arte del passato di Rossano, Mimmo Sancineto lo rende molto più evidente nelle altre due tavole: quella con il San Teodoro a cavallo e quella dedicata all’Achiropita. Per entrambe si ritiene faccia cogliere aspetti difficilmente percepibili sia per le ridotte dimensione sia per lo stato di conservazione.
La brattea diventa l’occasione per tirare fuori la vitalità più intrinseca del gioco delle linee nella costruzione dell’immagine. Del Santo cavaliere rimane solo il riferimento iconografico, mentre tutta l’inquadratura scelta per la rappresentazione un pretesto per rendere pittoricamente l’essenzialità schematica dello sbalzo. Pratica questa alquanto congeniale a Mimmo Sancineto che, per diverso tempo, è stato esperito insegnante di sbalzo e cesello negli istituti d’arte calabrese.
Nell’icona, invece, si coglie prontamente il recupero e l’evidenziazione di quel carattere corsivo, quasi di miniatura, che l’immagine trasmette. L’affresco, come è noto, si pone al centro di un interessante dibattito critico tendente a datarlo all’ottavo o al decimo secolo in base alle diverse fonti stilistiche e iconografiche indicatevi dalla critica, la quale ha pure messo in risalto le peculiari tangenze della resa pittorica a quelle degli scriptoria meridionali e specificamente rossanesi, come personalmente si sostiene. Un’opera quindi importante per l’arte calabrese e dell’intero Mezzogiorno medioevale. Nella singolare rielaborazione pittorica proposta da Mimmo Sancineto questo carattere, come detto, si afferra subito nel vigore dato alla linea e ai contraccolpi dei colori. Sono messi pertanto in giusta evidenza il vigoroso movimento del braccio destro della Vergine, il leggerissimo tre quarti del suo volto e di quello del Figlio e finanche il perfetto sedersi di Questi sul braccio sinistro della Madre. Elementi che irrompono nella ieraticità di riferimento della figura con una forza tale da stravolgere il senso che generalmente a essi si attribuisce, permettendo tra l’altro di capirne la genesi della rivalutazione formale e critica. Infatti, i forti segni con cui cono delineati i contorni dell’immagine e dei suoi particolari, specie dei volti, non devono essere intesi alla stregua di un semplice arcaismo ma sono un persuasivo tributo alla lezione del Cubismo e dell’Espressionismo che, come gli studi da tempo hanno messo in risalto e in questa tavola viene illustrato più che detto, tanto ha contribuito all’effettivo recupero critico dell’arte medioevale in genere e dell’icona in particolare.